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Attacchi di panico

La parola panico deriva dalla mitologia greca e più precisamente del “dio Pan”, metà uomo e metà caprone, che compariva all’improvviso sul cammino altrui, suscitando un terrore improvviso e poi scompariva velocemente. Le vittime rimanevano incredule, non riuscivano a spiegare cosa fosse successo e non erano in grado di gestire la forte emozione negativa provata.

Gli attacchi di panico si manifestano con un improvvisa e intensa paura in assenza di un reale pericolo, accompagnata da sintomi somatici, dovuti all’attivazione del sistema simpatico, e cognitivi (paura di impazzire, di perdere il controllo, paura di morire). Generalmente raggiungono rapidamente l’apice e sono di breve durata (di solito 10 minuti o meno).

 

I sintomi

I sintomi più comuni che coinvolgono il corpo, sono:

  • rossore al viso e talvolta all’area del petto;

  • capogiri, sensazione di stordimento, debolezza con impressione di perdere i sensi;

  • parestesie, più comunemente rappresentate da formicolii o intorpidimenti nelle aree delle mani, dei piedi e del viso;

  • difficoltà respiratoria, tecnicamente definita dispnea o soffocamento;

  • aumento della sudorazione oppure brividi, legati a repentini cambiamenti della temperatura corporea e della pressione;

  • nausea, sensazioni di chiusura alla bocca dello stomaco o di brontolii intestinali;

  • tachicardia o palpitazioni, spesso associati a dolori al torace;

  • tremori o scatti.

Inoltre, durante questa esperienza si possono avere le seguenti sensazioni:

  • paura di perdere il controllo;

  • paura di impazzire;

  • non appartenenza alla realtà, derealizzazione;

  • osservare dall’esterno cosa accade al proprio corpo, depersonalizzazione;

  • non gestione di qualcosa di terribile

  • paura o convinzione di stare sul punto di morire;

  • crisi di pianto.

Ulteriore caratteristica associata è il forte desiderio di fuggire dal luogo in cui si sta manifestando l’attacco di panico. Il disagio generato dagli attacchi di panico è spesso accompagnato da vergogna e timore che il malessere sia percepito dalle altre persone favorendo un’ immagine di sé “debole”.

Il carattere improvviso degli attacchi di panico e la loro relativa imprevedibilità, porta spesso le persone che hanno questo problema a sentirsi particolarmente deboli e vulnerabili, condizione che porta spesso a un cambiamento significativo della vita.

La diagnosi

Secondo il DSM-5 per fare diagnosi di disturbo di panico devono essere soddisfatti i seguenti criteri:
A) presenza di attacchi di panico inaspettati e ricorrenti (un solo attacco di panico non è dunque sufficiente), dei quali almeno uno seguito da un mese (o più) di preoccupazione persistente di avere altri attacchi e/o di preoccupazione relativa alle implicazioni o alla conseguenze dell’attacco (ad esempio, perdere il controllo, avere un infarto cardiaco, impazzire), e seguiti da una significativa alterazione del comportamento correlata agli attacchi di panico.

B) presenza o assenza di Agorafobia

C) gli attacchi di panico non devono essere causati dagli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per esempio, da abuso di una droga) o di una condizione medica generale (ad esempio, ipertiroidismo).

D) Gli attacchi di panico non devono essere meglio giustificati da un altro disturbo mentale, come ad esempio la Fobia Sociale.

Neurofisiologia degli attacchi di panico

I segnali provenienti dagli organi di senso, principalmente vista, udito e olfatto, raggiungono dapprima il talamo, rispettivamente visivo, uditivo e olfattivo. Da qui, se l’informazione viene percepita come sconosciuta o minacciosa, è trasmessa all’amigdala che, in quanto centralina d’allarme, etichetta lo stimolo, riconoscendolo come pericoloso, sconosciuto o doloroso: in particolare se lo riconosce come pericoloso, attiva il sistema nervoso simpatico, che fa parte del sistema nervoso autonomo (cioè indipendente dai nostri ragionamenti e dalla nostra volontà).

Il sistema nervoso autonomo è composto da due vie , simpatico e parasimpatico, che decorrono ai lati della colonna vertebrale (una serie di innervazioni che dal midollo spinale giungono agli organi periferici). Il sistema nervoso simpatico (sns) è finalizzato a preparare l’organismo ad attaccare o a fuggire da una situazione di pericolo o minacciosa.

La reazione di paura innescata dall’amigdala rappresenta, dunque, un meccanismo fisiologico sofisticato, ma immediato, che rende le persone concentrate, energiche, attive e vigili quando si trovano o pensano di trovarsi di fronte a un pericolo o a una minaccia. Nel nostro cervello però abbiamo un’altra parte molto importante che rappresenta l’area più razionale e abile di tutte: la corteccia.

La corteccia, nello specifico quella prefrontale, che nello sviluppo evolutivo si è formata in un secondo momento, è coinvolta nella pianificazione esecutiva e ha lo scopo di rivalutare la minaccia, prestare attenzione, aiutare a controllare gli impulsi, risolvere i problemi, riflettere sulle conseguenze delle nostre decisioni. Un’elaborazione più lenta, attraverso i vari livelli della corteccia, produce una classificazione più dettagliata ed esatta dello stimolo che viene inviato all’amigdala permettendo il compimento dell’attacco o della fuga oppure, se il sistema veloce e sommario ha prodotto un falso allarme, la cancellazione della risposta di attacco o fuga.

Quindi, la corteccia coinvolta nella memoria, nel ragionamento e nel giudizio può correggere le strutture cerebrali emozionali più antiche e automatiche, riducendo la possibilità di falsi allarmi e quindi l’esperienza soggettiva dell’ansia.
In alcuni momenti della giornata, quando siamo esposti a stimoli minacciosi o poercepiti come tali, si attiva l’amigdala e, di conseguenza, viene innescata la modalità di attacco-fuga. Superato l’evento che ha innescato l’attivazione dell’amigdala, la corteccia può nuovamente operare al suo livello ottimale. Questo è il funzionamento della “normale” reazione di stress.

Quando però questo allarme viene attivato tante volte, le persone diventano reattive, impulsive e non riescono più a prendere decisioni lucidamente poiché sono confuse e disorientate. La presenza costante di stimoli percepiti come minacciosi o pericolosi, che scatenano risposte di attacco-fuga determina una sovrastimolazione del sistema limbico e quindi dell’amigdala.

Gli attacchi di panico, dunque, sono il risultato di interpretazioni “catastrofiche” di eventi fisici e mentali che vengono erroneamente considerati come segni di un imminente disastro.

La paura della paura

La paura è un emozione che si attiva quando l’individuo percepisce una minaccia. La paura prepara il corpo a reagire a questa minaccia. Il panico può essere innescato da qualsiasi paura per una minaccia esterna, ma immediatamente dopo la minaccia diviene interna. Il soggetto non riconosce come tali i segni dell’attivazione adrenergica della paura ma li interpreta come una gravissima minaccia interna alla propria salute fisica o mentale (teme di morire o di impazzire) ed entra in quel loop di autorinforzo chiamato circolo di Clark noto anche come la paura della paura.
Secondo il Modello del Circolo vizioso del Panico (Clark, 1986 – Modificato da Wells, 1997) vi è uno Stimolo scatenante esterno oppure interno che viene percepito come minaccioso attivando così le sensazioni somatiche del panico come ad esempio dolori al petto, palpitazioni, salivazione azzerata, nausea, tremore tachicardia, tremore, fame d’aria, iperventilazione ecc. Dopodiché vi è un’interpretazione catastrofica delle sensazioni mentali e somatiche che accompagnano questa preoccupazione ad esempio ‘non respiro… e se mi sento male? Mi sta venendo un infarto?‘. Tutto ciò porta ad un incremento della preoccupazione, cioè si acuiranno le sensazioni somatiche, fino a causare un vero e proprio Attacco di Panico. Invece, se si mettono in atto evitamenti o comportamenti protettivi le manifestazioni negative diminuiranno con la conseguenza di una cronicizzazione dell’ansia.

Il vortice del panico è favorito dal fatto che il cambiamento fisiologico iniziale è spesso improvviso e inspiegabile. Il panico può spaventare a tal punto da diventare oggetto di preoccupazione anticipatoria. Cioè la persona può iniziare a temere di avere nuovi attacchi di panico.

 

Fattori di mantenimento

Dopo il primo attacco di panico, vi sono dei fattori che mantengono e alimentano il problema, ostacolandone la soluzione.

  • Sensibilità all’ansia

Alcune persone hanno una predisposizione individuale a provare paura per le proprie sensazioni legate all’attivazione fisiologica.

  • Effetto di coerenza con l’emozione

È un fenomeno cognitivo in cui i pensieri e credenze tendono a essere coerenti con l’emozione attivata. Se stiamo provando ansia avremo accesso solo a memorie ansiogene che ci confermeranno la presenza di un pericolo/minaccia.

  • Attenzione selettiva

Consiste nel  monitoraggio delle proprie sensazioni interne con una particolare attenzione alle alle situazioni temute, allo scopo di verificare la presenza di segnali che potrebbero scatenare l’attacco di panico. Ciò produce un abbassamento della soglia di percezione di queste sensazioni e contemporaneamente l’aumento dell’intensità soggettivamente percepita, facilitando così l’attivazione del circolo vizioso del panico.

  • Emozione come informazione

Lo stato emotivo in cui ci troviamo funziona come fonte d’informazione, per questo motivo se proviamo ansia deduciamo che ci debba essere un pericolo in agguato.

  • Comportamenti protettivi

Hanno lo scopo durante il circolo del panico di prevenire l’attacco di panico.

  • Evitamenti

Le persone con attacchi di panico evitano tutte le situazioni che ritengono favorire il panico, cercando di mantenersi all’interno della propria comfort zone che però rischia, col tempo, di restringersi sempre di più.

  • Distrazione

È una forma di evitamento cognitivo dell’ansia che implica il tenersi impegnati per non notare sintomi di ansia e la possibilità che si inneschi il circolo del panico.

Attacchi di panico e agorafobia

Il rischio è reagire evitando tutte le situazioni che possono attivare gli attacchi di panico oppure affrontare le situazioni solo se accompagnati da qualcuno. In questo modo si innesca un problema di agorafobia, intesa come la paura relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali può essere difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nei quali può non essere disponibile aiuto in caso di un improvviso attacco di panico. Una delle conseguenze pericolose dell’agorafobia è quello di ridurre l’autonomia e rinunciare ad attività quotidiane piacevoli o utili per la soddisfazione personale. L’agorafobia è dunque come una sorta di cura fai da te del terribile panico.

Etimologicamente, il termine proviene dal greco “αγορά” (piazza) e “φοβία” (paura): “paura della piazza”. Ovvero degli spazi aperti e/o affollati.

La definizione tecnica usata dagli psichiatri è però differente: è il timore di trovarsi in luoghi dove – secondo il giudizio della stessa persona agorafobica – potrebbe avvenire un attacco di panico. In parole più semplici, si ha paura degli spazi aperti perché si teme che sia probabile avere degli attacchi di panico.

Il panico è una condizione emotiva di paura e terrore, in cui però prevalgono gli aspetti corporei e fisiologici della paura: il cuore palpita, il corpo trema e suda, si percepisce un malessere al petto o all’addome. Inoltre ci si può sentire bizzarramente estraniati dalla realtà e perfino da se stessi. Si ha paura, ma non si capisce bene di cosa. Forse del proprio star male, in una condizione che è terrificante, in cui si tocca con mano la sensazione di impazzire.

Queste sensazioni corporee corrispondono a un preciso assetto fisiologico che è uno dei tre sistemi biologici innati (gli altri due sono la fuga e l’attacco) che abbiamo a disposizione per reagire a un pericolo o a una minaccia: il “freezing”, ovvero il raggelarsi a imitare la freddezza della morte.

Questa reazione è qualitativamente diversa dalla paura che porta alla fuga, o all’attacco, ed è innescata da un pericolo terrificante in cui non vi sono vie di fuga. In questi casi tanto vale paralizzarsi in una condizione di estremo rallentamento delle funzioni vitali, che è l’assetto fisico migliore (o il meno peggio, a essere realistici) per affrontare situazioni estreme, che siano disgrazie naturali o anche attacchi di predatori, che magari potrebbero risparmiarci proprio perché ci scambiano per cadaveri. A volte si scampa in questa maniera alle fucilazioni di massa: svenendo e –naturalmente- avendo la fortuna di non essere colpiti dalle sventagliate di proiettili e di non essere seppelliti subito vivi ma lasciati li, morti apparenti in compagnia dei veri cadaveri.

Quello che è interessante è che la maggior parte degli animali posti in un ambiente non familiare mostrano immediatamente un incremento di indicatori di freezing, a dimostrazione che lo spazio aperto e gli ambienti non familiari racchiudono in sé un’informazione emozionalmente significativa.

Diagnosi differenziale con un disturbo cardiaco

Il sintomo somatico più frequente e angosciante per chi sperimenta un attacco di panico è la tachicardia.

La tachicardia rappresenta generalmente un aumento della frequenza del battito cardiaco al di sopra del valore limite considerato normale per un cuore a riposo, per convenzione, a 100 battiti al minuto (bradicardia è invece una frequenza inferiore a 60 battiti al minuto).

La tachicardia in genere provoca la percezione soggettiva del battito cardiaco (che normalmente non avviene) spesso descritta come “sensazione del cuore in gola”.

E’ possibile distinguere la tachicardia esclusivamente cardiologica dalla tachicardia dello stato d’ansia e dell’attacco di panico prendendo in considerazione quattro caratteristiche fondamentali del battito cardiaco:

  • Frequenza del battito cardiaco: se la tachicardia si mantiene entro i 130 battiti al minuto ci troviamo, quasi certamente, di fronte a una tachicardia su base ansiosa di pertinenza psicoterapeutica e/o psichiatrica, mentre le tachicardie che superano i 150/ 200 battiti al minuto sono da considerare, quasi sicuramente, di natura cardiologica.

  • Ritmicità o aritmicità: negli attacchi di panico è presente l’aumento del battito cardiaco che conserva regolarità del ritmo, l’aumento della frequenza del battito cardiaco con irregolarità del ritmo, è tipico di condizioni cardiologiche.

  • Modalità di insorgenza e remissione: gli attacchi di panico raggiungono l’apice in 10 minuti, mentre la sua scomparsa è più graduale. Nelle aritmie si passa bruscamente da un ritmo normale a un ritmo di 150 battiti al minuto e oltre, anche la remissione del sintomo è improvvisa e non graduale.

  • Sintomi di accompagnamento: molti sintomi delle aritmie sono simili ai sintomi degli attacchi di panico, ma alcuni sintomi, tipici degli attacchi di panico, non sono presenti nelle aritmie: palpitazioni/tachicardia, sudorazione, brividi o vampate di calore, tremori fini o grandi scosse, parestesie, nausea o disturbi addominali, senso di asfissia, derealizzazione/ depersonalizzazione, non si hanno nelle aritmie. La sintomatologia che si ritrova nell’aritmia e difficilmente negli attacchi di panico riguarda dolori o fastidi al petto.

 

Attacchi di panico e diving

Uno studio del 1995, Anxiety and panic in recreational scuba divers ha rilevato come oltre la metà dei sub che praticano immersioni sportive ha sperimentato almeno una volta l’attacco di panico. Statistiche del DAN e dell’Università del Rhode Island sostengono che il panico è stato responsabile del 20-30% degli incidenti mortali in immersione ed è tra le prime cause di morte nelle attività subacquee. In una situazione di attacco di panico, il subacqueo (o diver) riesce a concepire un solo obiettivo nella propria mente: raggiungere la superficie il più rapidamente possibile; in questo modo dimentica di respirare normalmente, con il risultato di una possibile embolia gassosa arteriosa.

Le principali caratteristiche dell’ansia durante un immersione sono:

  • L’individuo percepisce la propria situazione come minacciosa, difficile o impegnativa.

  • L’individuo considera la sua capacità di far fronte a questa situazione come insufficiente.

  • L’individuo si concentra sulle conseguenze negative che conseguiranno al suo fallimento (di risolvere i problemi), piuttosto che concentrarsi sul trovare delle possibili soluzioni alle sue difficoltà.

L’ansia ha la funzione di allontanarci da una situazione di pericolo, ha un valore di sopravvivenza e la fuga ne è la risposta comportamentale più tipica. Alcuni studi hanno evidenziato che un livello medio di ansia garantisce una prestazione ottimale in certe situazioni perché provoca a volte un aumento della motivazione a concentrarsi sulle proprie finalità. Un eccessivo stato d’ansietà invece può condurre a una dimensione cognitiva e percettiva ridotta, nella quale la concentrazione e l’attenzione del subacqueo si perdono, facendogli perdere il controllo della situazione.

Esistono diverse tecniche di visualizzazione e di rilassamento per gestire l’ansia nelle situazioni di stress.

Incentivando la prevenzione di ansia e attacchi di panico nel diving, il mare può restare un amico, nel quale ci si tuffa quando ci si sente pronti e sereni, rimandando invece quando non ci si sente pronti.

Il trattamento degli attacchi di panico

le linee guida internazionali (NICE National Institute for Health and Clinical Excelence, 2011) indicano la psicoterapia di tipo cognitivo-comportamentale, insieme al training di rilassamento, come i trattamenti più efficaci per la cura degli attacchi di panico. Anche gli interventi di self-help e la psicoeducazione in gruppo seguono un orientamento cognitivo comportamentale.

Gli interventi CBT si basano su protocolli strutturati che devono essere seguiti durante la terapia.

Secondo il modello cognitivo non è la situazione in sé a spaventare, ma il modo in cui la interpretiamo. Non sono, quindi, gli eventi a provocare quello che sentiamo, ma il modo in cui li vediamo e li gestiamo, attraverso i nostri pensieri (Beck, 2013). Il trattamento cognitivo comportamentale quindi prevede di aiutare il paziente in una serie di passi a:

  • Prestare attenzione a ciò che si prova, anche al livello delle sensazioni corporee, in un determinato momento.

  • Identificare quali sono i pensieri relativi all’emozione, il proprio dialogo interno.

  • Esercitarsi a mettere in dubbio i pensieri e le convinzioni disfunzionali.

  • Sostituire i pensieri e le convinzioni disfunzionali con pensieri più vicini alla realtà e più utili per il raggiungimento dei propri obiettivi.

  • Smettere di evitare con l’uso di tecniche comportamentali come l’esposizione enterocettiva e in vivo.

  • prevenire le ricadute.

 

Protocollo di Andrews per il trattamento del panico:

Uno dei protocolli più utilizzati e più studiati per il trattamento del Disturbo di Panico è quello messo a punto da Andrews. Questo protocollo si struttura secondo 7 punti (psicoeducazione, monitoraggio del panico, tecniche di gestione dell’ansia, ristrutturazione cognitiva, esposizione graduale alle situazioni, esposizione graduale alle sensazioni fisiche, prevenzione delle ricadute) ed è stato pensato principalmente per il trattamento di gruppo.

Il trattamento farmacologico: 

I farmaci d’elezione per il trattamento del disturbo da attacchi di panico sono gli antidepressivi e le benzodiazepine. I primi, tra cui gli inibitori della ricaptazione della serotonina (ssri), riducono gli attacchi di panico e possono essere assunti per periodi più lunghi in quanto non provocano dipendenza.

Le benzodiazepine, invece, producono degli effetti ansiolitici immediati ma, a lungo termine, possono causare dipendenza e sintomi di astinenza (quindi solitamente vengono impiegati solo nella fase iniziale della cura).

(a cura della redazione di Stateofmind.it)

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